un documento trovato nella rete e datato 2005…
Censura in rete (2005)
Per questo fotomontaggio Indymedia è sotto sequestro
Censurare un sito come Indymedia, o mettersi
minacciosamente a caccia dei presunti "responsabili", equivale a
mettere sotto processo un preside perché sui muri della sua scuola sono
comparse delle scritte offensive.
Il gip di Roma Marco Patarnello ha disposto il sequestro preventivo del
sito italiano di Indymedia, la rete di informazione indipendente nata nei giorni della rivolta di
Seattle. Motivo, la pubblicazione di una fotografia di papa Benedetto XVI in divisa da nazista (foto
1), praticamente la stessa foto che è stata
sparata in prima pagina dal Sun di Murdoch (foto 2), il giorno dopo la fumata bianca. E’ da sottolineare
il fatto che l’iniziativa arriva nonostante il fatto che la Consulta abbia dichiarato incostituzionale
l’articolo 402 del codice penale, quello relativo appunto al vilipendio alla religione. Comunque
resta in vigore l’articolo 403 che parla di "offesa per villipendio di un ministro del culto cattolico".
Ed è probabile che sia questo l’articolo su cui si è appoggiato il gip di Roma.
Il capo della procura Giovanni Ferrara e il pm Salvatore Vitello, comunque, sono stati costretti
a firmare una rogatoria per notificare il provvedimento del giudice in Brasile visto che indymedia.
org risulta facente capo a un indirizzo brasiliano. Vero è che si appoggia a un provider estero secondo
un’abitudine consolidata e assai diffusa fra i siti affiliati alla rete di controinformazione più famosa
del mondo, per aggirare le svariate iniziative censorie che colpiscono sempre più spesso la rete,
forse l’ultimo territorio dove le informazioni scomode possono pascolare più o meno indisturbate.
L’iniziativa è infatti solo l’ultima della serie. Il 7 Ottobre 2004 l’Fbi ha fatto irruzione negli
uffici statunitensi della Rackspace, società che gestisce i server che ospitano molti siti locali
di indymedia, fra cui italy. indymedia. org. Gli agenti sequestrano alcune macchine e poi spariscono
nel nulla. Dopo una settimana di silenzi, ipotesi e attestati di solidarietà, l’ufficio legale di
Indymedia Italia viene a sapere che l’ordine è partito dalla pm di Bologna Morena Plazzi che aveva
chiesto l’acquisizione di informazioni nell’ambito dell’indagine sulla Federazione anarchica informale.
Nessuno però aveva chiesto il sequestro delle macchine né degli hard disk che infatti, il 13 ottobre,
vengono restituiti ai legittimi proprietari. Sugli hard disk sequestrati c’erano tutte le informazioni
pubblicate da decine di migliaia di attivisti nello spazio aperto che affianca quello ufficiale,
gestito dalla redazione, ma non c’erano i loro indirizzi né, quindi, alcuna possibilità di rintracciarli.
Ma la censura non colpisce soltanto gli "indyani". All’inizio di aprile l’Fbi ha inviato due mandati
di comparizione all’amministratore del server flag. blackened. net, punto di riferimento per anarchici
di tutto il mondo che ospita numerosi siti internet e forum di discussione. In due occasioni differenti
l’Fbi ha intimato la consegna degli indirizzi dei visitatori di alcuni siti ospitati sul server,
tra cui il popolare Infoshop News, perché contenevano messaggi di «istigazione alla violenza». Naturalmente
il gioco può essere truccato facilmente: basta infilare messaggi provocatori nello spazio libero,
ed ecco pronta la scusa per l’intervento delle forze dell’ordine. Se si va indietro nel tempo la
lista delle vittime dell’Fbi aumenta. I casi più noti a livello internazionale riguardano la chiusura
del sito Raise the Fist, l’arresto del webmaster (progettista di siti) Sherman Austin e il particolare
accanimento contro molti altri snodi del network Indymedia, soprattutto in prossimità di eventi considerati
a rischio. Considerando l’importante ruolo che il network ha svolto raccogliendo testimonianze, foto
e riprese video sugli eccessi della polizia durante le contestazioni – a Seattle, Praga, Genova,
Washington e via dicendo – le autorità si premurano di rendere la vita difficile ai cyber attivisti
soprattutto in prossimità delle manifestazioni di protesta.
Ma anche in Italia i censori si danno da fare. Sono stati chiusi accadeinsicilia, un paio di siti
RdB/CUB che si occupavano di lavoro precario e brigaterosse. org, che si occupava di un’analisi storica
del periodo. Si è arrivati a sfiorare il grottesco quando è stato ordinato il sequestro del sito
dell’Unione nazionale carabinieri che, nel dicembre scorso, è stato chiuso d’ufficio per avere adottato
la pericolosa abitudine di denunciare malefatte e abusi all’interno dell’Arma. In realtà dall’ultima
iniziativa dei magistrati traspare una totale ignoranza di alcuni concetti basilari del cyberspazio
e dell’informazione in rete.
Prima di tutto Indymedia non è in Italia o in Brasile: è semplicemente ovunque perché è in sostanza
una rete con server sparsi per tutto il pianeta. Se ne viene chiuso uno d’autorità bastano un paio
di giorni per allestire un mirror, un sito specchio che può riproporre, in parte o integralmente,
i contenuti del sito originale. In secondo luogo Indymedia è concettualmente più simile a una bacheca
che a un giornale. Chi si collega lo fa per avere accesso alle informazioni che vengono ignorate
o distorte dai media ufficiali ma anche per sapere cosa pensa la gente comune e, magari, per dire
la propria. A differenza dei lettori o dei telespettatori, l’utente di un sito come Indymedia non è un
fruitore passivo ma interviene, commenta, mette in comune quello che sa e talvolta, manifesta la
propria incazzatura in modi più o meno coloriti, il che non significa condividerli. Censurare un
sito di questo tipo, o mettersi minacciosamente a caccia dei presunti "responsabili", equivale in
sostanza a mettere sotto processo un preside perché sui muri della sua scuola sono comparse delle
scritte offensive.